Ha un milione e mezzo di followers su Instagram. Indossa i capi delle più note griffe di moda. È intervistata, amata e anche un po’ odiata. Miquela Sousa, questo il suo nome, è il fenomeno del momento.
Di mestiere fa l’influencer, ma anche l’ambasciatrice di cause buone e giuste, ed è bellissima. Il suo volto lentigginoso incorniciato da due chignon perfetti campeggia sull’ultima advertising del noto brand australiano Ugg. Ma Ugg è solo l’ultima di una lunga serie di case di moda che ha stretto accordi con la bellissima ispanico-brasiliana. Al suo web-impero hanno contribuito, tra gli altri, marchi come Prada, Moncler e Diesel.
Ma allora, che cos’ha di diverso Miquela Sousa rispetto alle tante modelle e/o influencer come Bella Hadid o Chiara Ferragni? Perché tanto clamore?
La risposta è semplice: perché Lil Miquela (il suo nome per gli “amici”) non esiste, o meglio, esiste solo nello cyber-spazio, in quell’”ecosistema liquido” che dicono essere il nostro futuro. Non le si può stringere la mano, non la si può baciare, non ci si può scattare (o forse sì) una foto con lei. Miquela è un avatar, un’influencer virtuale, un umanoide. Insomma, un’intelligenza artificiale all’ennesima potenza. C’è ma non c’è. È vera ma non è vera.
La “storia” è lunga, procediamo con ordine.
Lil Miquela nasce ufficialmente nell’aprile del 2006, potremmo dire, in sordina. Inizialmente, infatti, le pose studiate, i pranzi con gli amici, gli editoriali per le riviste e la partecipazione agli eventi più cool (Beychella vi dice niente?) non destavano alcun sospetto. Poi, guardando meglio, qualcuno si è accorto che la frangetta della ragazza era un po’ troppo impeccabile, che la pelle era troppo liscia e levigata, che le lentiggini che le punteggiano il volto erano un tantino simmetriche. Insomma, gli insta-fans hanno notato che qualcosa non andava, che osservare Miquela produceva un effetto straniante, distopico. Il vaso di Pandora si stava scoperchiando; aspettava solo l’occasione giusta.
Così, puntuale come nelle migliori “insta-soap”, la rivelazione è arrivata lo scorso 18 aprile quando il profilo Instagram dell’influencer è stato hackerato, niente poco di meno che, da Bermuda, vale a dire la nemesi di Miquela, altra bellezza digitalizzata, ma questa volta con connotati strettamente caucasici e con idee politiche filo-trumpiane. Al grido di “non ti restituisco l’account se prima non dici a tutti la verità”, Bermuda ha costretto Miquela ad ammettere che sì, lei non è umana, che il suo mondo fatto di cause civili e glamour è creato dalla Brud, start-up con base a Los Angeles specializzata, va da sé, in robotica e intelligenza artificiale.
Seguono comunicati stampa ufficiali, messaggi e foto di riavvicinamento a conclusione di una guerra all’ultimo algoritmo che, per quanto bizzarra, è riuscita ad appassionare migliaia di utenti. Già, sembra il teatro dell’assurdo ma, a quanto pare, anche ragazze e ragazzi senza spina dorsale, senza carne né ossa, senza cuore né cervello, riescono a creare empatia, riescono a coinvolgere, simpatizzare e fraternizzare. Ma perché?
In un’intervista rilasciata a Fabio Fazio durante la passata edizione del programma Che tempo che fa, Chiara Ferragni individuava nella spontaneità l’ingrediente base per il successo di una (per dirla alla sua) “imprenditrice digitale”. Come si può, allora, parlare di naturalezza quando abbiamo a che fare con un bot che esiste solo sul web? A quanto pare è possibile, se è vero che Miquela Sousa, al pari delle “sorelle” terrene, mostra foto che la vedono disinvolta, a pranzo con l’amico avatar Blawqo (eh sì, l’esercito di CGI s’infittisce), o intenta a mangiare un gelato.
E poi, in fondo, le labbra carnose e gli occhioni da cerbiatta di Miquela, non sono tanto dissimili da quelli di Bella Hadid, finita di recente nel mirino degli haters per aver postato un’immagine che strizza l’occhio alle bambole di silicone. Che l’”inganno” stia proprio qui? Che la linea tra finzione e realtà si stia talmente assottigliando da scomparire? E dire che è strano; perché l’epoca della bellezza “utopica” di Miquela, o di quella iper-costruita dell’Hadid, è la stessa delle battaglie anti-perfezione, è la stessa che ha rotto il tabù delle modelle magrissime. La medesima, insomma, che osanna Ashley Graham per non ritoccare le immagini che pubblica.
Che cosa può darci, quindi, un modello fatto solo di pixel? Quali sensazioni, emozioni possono comunicarci degli occhi tanto realistici quanto vitrei? È paradossale, ma pensare a Lil Miquela fa fare un balzo indietro nel tempo. A quell’epoca della moda popolata da “mannequin senz’anima” il cui unico scopo era quello di mostrare un abito e poco di più. Con la completa digitalizzazione, addirittura delle influencer, sembrano spazzati via gli anni delle supermodel, di quelle ragazze che, magari con un’imperfezione qua e là, ammaliavano per personalità, carattere e temperamento.
Siamo solo nostalgici? Che sia questo il vero, reale, prossimo futuro? Saranno gli avatar i nostri punti di riferimento? Non lo sappiamo… ma certo è che, nel mondo dell’arte c’è stato chi, in tempi ancora non sospetti, ci ha riflettuto un po’ su.
E allora, viene alla mente l’umanoide di The Face, freddo, asettico, sterile e impersonale, creato dall’artista nipponico Go Watanabe per indurci alla riflessione sulla sempre più robotizzata vita contemporanea.
O ancora, come non pensare alla Keitai Girl di Noriko Yamaguchi. Una cyber-model con una tuta così metallica da fare invidia a Paco Rabanne. Metallica certo, ma anche super tecnologica, costruita com’era da cavi e innesti che le ricoprivano tutto il corpo.
Come a dire: tutta questa tecnologia finirà con l’impossessarsi di noi? Dei nostri corpi e delle nostre menti?
A voi l'(ardua) riflessione!