“Poveretta, chissà che caldo patisce”. “Ma sarà igienico”? “Certo che, così bardate, potrebbe esserci chiunque là sotto”.
Alzi la mano chi (avanti, non siate timidi) non ha mai avuto uno di questi pensieri nel trovarsi di fronte a una donna vestita con abaya e/o hijab. Tuniche sempre lunghe e veli che lasciano intravedere a volte solo gli occhi. Codici religiosi visti con sospetto perché nascondono, camuffano, mortificano il corpo della donna. Questo, almeno, secondo la visione occidentale, quella che non s’interroga e non conosce, quella che dà giudizi affrettati. La questione è ampissima, ostica e (forse) mai risolta.
Dian Pelangi for New York Fashion Week, 2017
Ad esempio, lo sapevate che nel multiforme mondo arabo, esistono un’infinità di modi per chiamare il velo? O ancora che, spesso, a termini uguali corrispondano tipologie di abbigliamento differenti, diverse da paese a paese? Prendiamo il “toro per le corna” e pensiamo alla più spaventosa forma (sempre secondo l’Occidente) di abito musulmano: il burqa. Quel saccone informe che copre tutto il corpo ma che, indagando, si scopre che in Yemen si riferisce a un modo contemporaneo di velare il viso. E, sempre osservando attentamente, solo in Afghanistan, India e Pakistan, indica il vestito che copre anche il volto. Non solo; perché ci sono donne, assolutamente religiose, che il velo non lo indossano nemmeno.
Haslinda Rahim for Blancheur, Into the Shadows
Eppure… Eppure il territorio rimane spinoso e porta i governi a leggi, confronti e condanne. E dire che quella della “modest fashion” è un’area della moda in rapidissima crescita, se si pensa che il Global Islamic Economic Report ha stimato che saranno 373, i miliardi di dollari che i consumatori di “islamic chic” spenderanno entro il 2022. Un dato che ci riguarda da vicino se è vero che, stando sempre al report sopra citato, anche la “piccola” Italia ha un ruolo di primo piano, classificandosi terza (dietro a Emirati Arabi e Turchia) nello sviluppo di una moda islamica. Tradotto: significa aumento delle esportazioni e maggiore consapevolezza della tematica in questione.
Naima Muhammad for House of Coqueta
Dian Pelangi for Co-Identity Collection. Photos: Sebastian Kim
Insomma, in epoca di “vestire globalizzato” o di “glocalizzazione”, chiamatelo come più vi aggrada, la “modest fashion” non è più confinata ai territori a religione islamica. È varia e creativa e si trova in tutte le città del mondo, da Cina a Stati Uniti, oltrepassando pregiudizi e scetticismo.
È la prima mostra dedicata esclusivamente alla moda islamica, a quel “vestire modesto” (termine già messo ampiamente in discussione) che sottintende pudicizia nell’abbigliarsi. E non è un caso che l’esibizione abbia casa proprio qui; la San Francisco Bay Area costituisce, infatti, la patria di una delle più grandi comunità musulmane degli Stati Uniti.
Image courtesy of the Fine Arts Museums of San Francisco
Voluta e organizzata dai Fine Arts Museums della città californiana – e curata da Jil D’Alessandro, Laura L. Camerlengo e Reina Lewis – Contemporary Muslim Fashions esplora la complessissima natura del vestire islamico, scandagliando i costumi dei paesi asiatici e mediorientali, e delle comunità europee e americane. Perché il focus è proprio questo: andare oltre i tabù, mostrando le mille sfaccettature dell’Islam e dei suoi codici vestimentiari, scoprendo tradizioni e influenze che soggiacciono a una moda diversa dalla nostra.
Image courtesy of the Fine Arts Museums of San Francisco
Diversa sì, ma non per questo meno eclettica: in mostra si troveranno infatti circa 80 abiti presi dai più disparati settori che la moda del momento offre. Dall’high-end fashion allo sportswear, dallo streetwear alla couture. Nel panorama delle firme, accanto ai nomi di stilisti già noti si affiancheranno anche quelli di giovani designer emergenti, andando a proporre un ventaglio multiforme di proposte. Dall’avanguardismo del saudita Mashael Alrajhi, agli abaya aggiornati e ultra chic di Faiza Bouguessa, passando per lo hijab in versione sporty firmato Nike. Ce n’è per tutti i gusti, a riprova di un mercato che non ha nulla da invidiare al nostro, specie in termini di creatività.
È arrivato anche in Medio Oriente, nel marzo dello scorso anno e non senza polemiche, IL giornale di moda per eccellenza. Il primo numero di Vogue Arabia vedeva in copertina una bellissima Gigi Hadid catturata per l’occasione da Inez e Vinoodh, sensualmente coperta da un magnifico velo-gioiello.
Gigi Hadid for Vogue Arabia by Inez and Vinoodh
Ma, se Vogue e il suo respiro internazionale – che da anni ne hanno fatto la Bibbia del giornalismo di moda – ha sicuramente catalizzato l’attenzione, non è da dimenticare la numerosissima comunità di blogger islamiche che da anni, usando Instagram e i social network tutti, s’impegna ad aprire il dibattito sulla “moda modesta”, favorendo il dialogo e invitando alla riflessione.
Perché ci si può vestire “all’islamica” per una serie infinta di motivazioni: per tradizione, cultura, religione, appartenenza o convinzione politica. Ma anche per scelta personale, dove la credenza, tutta occidentale, che il corpo poco scoperto sia un’imposizione dell’uomo, perde di significato.
Hoda Katebi,
Banned,
2017
Images courtesy of the Fine Arts Museums of San Francisco
Ecco perché Contemporary Muslim Fashions affianca agli abiti anche l’esposizione di foto raccolte dai profili Instagram di influencer come Hoda Katebi, Leah Vernon e Dian Pelangi. Voci che, attraverso la rete, mirano a fornire un punto di vista alternativo, allo stesso modo delle artiste Wesaam Al-Badry e Shirin Neshat, presenti in mostra con le loro opere che smantellano uno ad uno i preconcetti intorno alla figura della donna musulmana e al suo modo di vestire.
Per interrogarsi e trovare qualche risposta su una moda culturalmente densa di significati, e forse, nient’affatto modesta.
Contemporary Muslim Fashion è in cartellone al de Young Museum di San Francisco fino al 6 gennaio 2019. Per tutte le informazioni sulla mostra visitate il sito.